Su Israele e Palestina è arrivato il momento di cambiare idea
Alcune cose che ho capito, alcune cose che ho visto alcune opinioni che ho cambiato sulla situazione in Medio Oriente
(Le foto brutte e sfocate sono mie, quelle belle sono di Gaia Fattorini)
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Spesso ci si sente chiedere, ma tu sei pro Israele o pro Palestina?
A me è sempre sembrata una domanda un po’ stupida. E’ una domanda che (forse) poteva avere senso nel 1948. Oggi no.
Prima di andarci, avevo, come tutti, le mie idee. Sono appena tornato da due settimane in quella terra, ho visto molti luoghi, molte cose assurde, ho parlato con tante persone. Ho cercato di lasciare a casa tutti i miei pregiudizi. Ho confermato alcune cose che pensavo. Ho cambiato idea, anche radicalmente, su altre. Le metto in fila, senza la pretesa di aver capito tutto e molto più perplesso di quando sono partito su quale possa essere la soluzione.
La situazione della zona è, attualmente, codificata dagli accordi di Oslo, firmati nel 1993 dal primo ministro Israeliano Ytzhak Rabin e dal leader dell’autorità palestinese Yasser Arafat e benedetti dagli Stati Uniti. In quegli accordi, dopo mezzo secolo di guerre e distruzioni si sancisce, innanzitutto il principio che Israele e la Palestina riconoscono la loro reciproca esistenza. Il territorio palestinese, in vista del riconoscimento di uno stato indipendente è diviso in tre aree: l’area A, che corrisponde ai centri urbani maggiori, è controllato dall’autorità palestinese, l’area B (i villaggi e le aree rurali) in maniera congiunta da israeliani e palestinesi, l’area C (in larga parte disabitato) dall’autorità militare israeliana. In pratica la Palestina è un territorio occupato militarmente da Israele. E lo è da cinquant’anni esatti.
Uno dei principali ostacoli alla pace e a una soluzione diplomatica della situazione sono gli insediamenti. Circa 700mila persone, di nazionalità israeliana, vivono in territorio palestinese. Non potrebbero farlo.
Cos’è Israele
Israele è lo stato più eterogeneo e strano che mi sia mai capitato di visitare. Tel Aviv è una città moderna, dinamica, con un’economia in rapida espansione e molto divertente. C’è un bel mare, un sacco di locali aperti tutta la notte e potrebbe sembrare anche di stare in Europa. Infatti la chiamano ‘the bubble’, la bolla, perché sembra (ma sembra solamente) che gli abitanti di Tel Aviv non abbiamo la minima percezione di quello che succede a qualche decina di chilometri di distanza. Ovviamente è un’impressione sbagliata perché dal 2014 alcuni razzi Qassam lanciati da Gaza arrivarono pure qua e molte case hanno un rifugio antimissili. In ogni caso l’atmosfera è libera e molto laica, anche perché è una delle città più gay-friendly del mondo. Per Israele, un fiore all’occhiello da presentare al mondo.
Gerusalemme è completamente un’altra storia: in pochi chilometri ci sono almeno tre o quattro città diverse. Se alcune strade del centro possono ricordare Tel Aviv, poco più in là c’è Gerusalemme Est che è una città araba in tutto e per tutto. Ancora a pochissima distanza quartieri come Mea Sharim, dove invece sembra di stare in uno shetl ucraino dell’Ottocento e dove vivono solo ebrei ultraortodossi: la parte vecchia è il cuore delle tre religioni monoteiste e a pochi metri convivono i pellegrini cristiani, gli ebrei che vanno a pregare il muro del pianto e i musulmani che pregano invece nella spianata delle moschee.
A Gerusalemme, città che sia lo stato israeliano sia quello palestinese rivendicano come capitale, c’è un’atmosfera di tensione più o meno costante, con l’esercito e la polizia che sorvegliano le porte e perquisiscono chi ritengono di perquisire. Ma paradossalmente è anche un gigantesco esperimento di convivenza dove comunità ebraiche ortodosse e islamiche tradizionaliste convivono con altre più laiche e gruppi cristiani che da secoli popolano la città santa.
Alcuni dicono che questa cosa funziona perché gli israeliani sono un popolo in armi. Alla fine del liceo ogni ragazzo fa tre anni di servizio militare, ogni ragazza due. Finito quel periodo si rimane a disposizione nella riserva e si viene richiamati, per un periodo più o meno breve, in genere una volta l’anno. Per questo capita di vedere in giro per Tel Aviv ragazzi che girano senza divisa, ma con un mitra sulle ginocchia, bambini che giocano alla guerra e fucili che se ne stanno più o meno normalmente in mezzo alla vita di tutti i giorni.
Ho conosciuto Yaniv, un ragazzo israeliano che dopo aver fatto il servizio di leva durante la seconda intifada, ha deciso di dire basta, che quella non era la cosa giusta da fare. Si è fatto venti giorni di galera, di cui dieci di isolamento e se n’è uscito con uno stigma sociale a vita. Non ho potuto fare a meno di pensare a quanto la sua obiezione di coscienza sia stata diversa dalla mia (una firma su un foglio, più o meno nello stesso periodo, come migliaia di altri ragazzi, uno sguardo storto da parte di un maresciallo dell’esercito al distretto e nulla più) e se nella sua condizione avrei avuto il coraggio di farlo. E, soprattutto, al fatto che il luogo dove il caso decide di farti nascere è la cosa che più di ogni altra condiziona la vita di chiunque.
Cos’è la Palestina
Anche in Palestina, nei mercati di Hebron e di Nablus, i giochi per i bambini che si vendono sono, in gran parte, fucili giocattolo. Se i bambini israeliani crescono sentendosi dire “dobbiamo difenderci perché tutto il mondo vuole ucciderci”, quelli palestinesi crescono sentendosi dire “dobbiamo difenderci dagli israeliani”. E soprattutto vedendo con i loro occhi quello che i soldati “nemici” fanno ogni giorno sul loro territorio.
La Palestina, come si diceva è un territorio militarmente occupato, ma i palestinesi non sono comunque tutti uguali. Quelli che vivono a Gerusalemme Est sono, da un certo punto di vista, israeliani di serie B. Non hanno il passaporto e non possono votare, ma hanno almeno il diritto di muoversi. Chi abita nel cosiddetto “West bank” no, a meno che non riesca ottenere un permesso specifico dalle autorità israeliane per motivi di lavoro o familiari. Non sulla base di criteri oggettivi, ma tutto fondato sull’arbitrarietà da potenza occupante.
In ogni caso la domanda che più spesso ci siamo sentiti fare in questo periodo è stata “Ma perché, si può andare in Palestina?”, come se fosse una terra che vive in una realtà distopica sotto una perenne pioggia nera di guerra. In realtà andare in Palestina (almeno per un europeo) è piuttosto facile e anche molto bello. E’ una terra meravigliosa, popolata da persone gentili e cordiali. E dove ci sono luoghi meravigliosi come Betlemme, Hebron e Ramallah.
Per andarci bisogna attraversare i cosiddetti checkpoint, posti di blocco, più o meno fissi che l’esercito israeliano dissemina qua e là, non solo ai confini, ma anche in giro per il territorio. In linea di massima per attraversarli ci vuole il tempo che serve per passare a un casello autostradale. Se, beninteso, hai in tasca un passaporto italiano. Può però anche succedere di incontrare addetti alla sicurezza con la luna storta, che hanno voglia di farti perdere tempo e che decidono di trattenerti un po’ più a lungo, sequestrando passaporto e cellulare e restituendolo dopo un po’. Un assaggio, minimo, insomma, di ciò che può capitare quotidianamente a un palestinese: perdere alcune ore, senza alcun motivo, per percorrere un tragitto di alcuni chilometri all’interno del proprio paese. Solo perché qualcuno ha deciso che gli andava così.
Girare per la Palestina, a parte questi “contrattempi” è abbastanza sicuro, tuttavia ci sono certi luoghi dove è meglio andare accompagnati. (Un buon sistema è farsi accompagnare da Green Olive Tours, un collettivo interreligioso che organizza visite nei luoghi più significativi della Palestina). Come ad esempio a Hebron città che, pur trovandosi in zona A, è sotto il controllo militare di Israele per via dei suoi luoghi di culto venerati sia dagli islamici sia dagli ebrei. Negli ultimi anni nella città vecchia di Hebron si sono insediati alcuni ebrei ortodossi. Alcuni di loro hanno occupato case ai piani alti di strade sotto le quali c’è il mercato arabo e dalle loro finestre capita che lancino uova, spazzatura e pietre.
Una visita interessante è anche quella dei campi rifugiati dove vivono ammassati migliaia di palestinesi che hanno perso la loro casa per via delle occupazioni. In pratica sono profughi nel loro paese. A Balata, il più grande campo palestinese a Nablus, abitano 30mila persone, di cui 10mila bambini. Quasi ogni giorno c’è un’irruzione dei militari israeliani con gas lacrimogeni e mitra spianati che cercano dei terroristi. In genere non trovano niente, ogni tanto qualcuno ci rimette la pelle solo perché ha provato a fotografare o filmare la scena. Resta il fatto che a Balata ci sono 10mila bambini che crescono con questa quotidianità: un esercito occupante (quelli “cattivi cattivi che urlano”, per intenderci) da cui difendersi in casa propria.
Cosa sono gli insediamenti
In mezzo a tutto questo ci sono gli insediamenti, ovvero le colonie di cittadini israeliani in terra palestinese. Secondo i trattati internazionali costruire colonie in un territorio militarmente occupato non solo è illegale, ma è considerato un crimine di guerra. Nel 1995, quando è stato assassinato Rabin da un ebreo ultraortodosso che lo accusava di aver firmato il trattato di Oslo, i coloni che vivevano in Palestina erano poco più di 100mila. Oggi, fra Gerusalemme Est e il West Bank sono circa 700mila.
Funziona così: un bel giorno un gruppetto di israeliani arriva su una collina palestinese, ci mette un paio di container e ci pianta una bandiera israeliana. E’ un’azione illegale, è infatti, ufficialmente, non hanno il permesso del governo israeliano. Lo fanno perché nella Bibbia (gli ultraortodossi in genere non lavorano, ma passano la giornata a studiare la Torah, i primi cinque libri della Bibbia, vivono di sussidi statali e sono piuttosto malvisti dagli israeliani laici e liberali) c’è scritto, più o meno, che quella è la loro terra. E la Bibbia, per loro, vale di più degli accordi internazionali e delle regole di convivenza civile.
A quel punto, immediatamente, arriva l’esercito israeliano a proteggerli (zona A, B o C non fa differenza) perché i palestinesi potrebbero aggredirli. Nel frattempo alcune società private cominciano a costruire le case in muratura, arrivano le strade e soprattutto arrivano gli acquedotti.
La questione degli acquedotti è cruciale: palestinesi e israeliani hanno un approvvigionamento separato. Inoltre, il governo israeliano ha il diritto di approvare o negare (come di solito succede) la costruzione di nuovi pozzi e nuovi acquedotti. Gli insediamenti che circondano i centri palestinesi sono un colpo d’occhio impressionante a livello cromatico: gli insediamenti sono circondati dal verde, i villaggi palestinesi dal deserto. Ma la differenza sostanziale è la presenza dei tank per l’acqua che stanno sui tetti di tutte le case palestinesi, dove l’acqua arriva ogni 10–15 giorni e quindi bisogna stoccarla e non sprecarla, mentre a sulla collina di fronte i coloni annaffiano i gerani.
Nel frattempo gli insediamenti prosperano e arrivano a ospitare anche decine di migliaia di persone. Per costruirli i campi e gli uliveti dei palestinesi vengono requisiti e le fattorie spesso distrutte. C’è una protezione costante dell’esercito spesso rinforzata dalle guardie private, le case costano meno che in Israele e i servizi sono altrettanto efficienti. Ci trovano spesso casa gli immigrati. Israele ha una “legge del ritorno” che garantisce l’immediato riconoscimento della cittadinanza, incentivi economici di alcune decine di migliaia di euro e molti altri benefit (scuole, aiuti per comprare auto e case, welfare, corsi di formazione) per gli ebrei che decidono di trasferircisi.
Quindi le colonie permettono di prendere un discreto numero di piccioni con un solo fagiolo. Da una parte si dà casa, e in un certo senso si confina, l’emigrazione meno qualificata, più povera e più religiosa, permettendo alle città come Tel Aviv di rimanere ricche e laiche. Dall’altra si circondano le città palestinesi, spesso tagliando le comunicazioni (grazie ai check point che nel frattempo vengono istituiti a proteggere gli insediamenti che dopo qualche anno il governo israeliano “legalizza”) fra due città distanti pochi chilometri. Nel frattempo questa massa di persone che si trasferisce nelle colonie diventa un soggetto politico sempre più influenteche alle elezioni vale più o meno il 10%, che viene raccolto da partiti di estrema destra, secolare o ultrareligiosa, che governa con il Likud di Nethanyahu.
Tutto questo, come dicevo, è vietato dalla comunità internazionale che lo considera un crimine di guerra. Molti politici israeliani (fra cui Avigdor Lieberman) e alcuni ministri del governo Nethanyahu, abitano orgogliosamente nelle colonie.
Tutto questo fa sì che la cosiddetta “Soluzione dei due stati”, sancita dai trattati, benedetta da America ed Europa e accettata, almeno nelle dichiarazioni che fanno all’estero, sia dal governo israeliano che dall’autorità palestinese, sia ormai diventata solo una bella favoletta che ci raccontiamo qua da noi per metterci la coscienza in pace e per far finta che alla fine di tutto questo gran baccano possa esserci una soluzione. Il fatto che circa 700mila cittadini israeliani vivano abusivamente (ma in casette con giardino, strade e acquedotti) e continuino ad aumentare, in un territorio (Gaza esclusa) dove abitano circa due milioni e mezzo di persone rende la soluzione dei due stati, nei fatti, impraticabile.
E poi c’è un muro
Per essere ancora più sicuri che nessun palestinese si infiltri in territorio israeliano, da quindici anni è cominciata la costruzione di un muro che separa due territori. Sono 810 chilometri di “barriera” ed è la più importante e costosa infrastruttura nella storia di Israele e più che un confine fra due stati è un modo per isolare le popolazioni palestinesi impedendo ulteriormente loro di avere un territorio statale coeso e omogeneo.
Una risoluzione Onu del 2004 disse che il muro era illegale, che Israele avrebbe dovuto smettere di costruirlo e ricompensare i palestinesi ai quali, per la costruzione del muro, erano state confiscate case e proprietà. Parole al vento. Il governo israeliano definisce questa politica “separazione”. L’Onu, invece, definisce ogni sistema di segregazione raziale Apartheid e lo definisce un crimine contro l’umanità.
Nella zona di Betlemme il muro, sotto l’azione del noto writer inglese Banksy e di altri artisti internazionali, è diventato una galleria d’arte a cielo aperto. Quest’anno Banksy ha aperto anche un albergo con la vista sul muro, il Walled off hotel, che si fregia del titolo dell’albergo con la vista più brutta del mondo. Ogni stanza è un’opera d’arte, ogni particolare curato nel dettaglio e dentro c’è un museo che racconta la situazione della Palestina.
E poi c’è Gaza
Gaza è un mondo a parte. E da lì non si può entrare né uscire, né via terra né via mare, salvo isolatissime eccezioni. E’ una striscia di 40 chilometri per 10 dove abita un milione e mezzo di persone sotto embargo di Israele. Ovviamente non ci sono entrato, sono arrivato solo ai confini e mi limito ai racconti che mi sono stati fatti.
Da quando la striscia di Gaza è chiusa è aumentata la povertà, spesso mancano acqua e luce e negli ultimi anni ci sono stati numerosi bombardamenti che hanno fatto migliaia di vittime. Casuali, come fanno di solito i bombardamenti.
Gaza non è solo geograficamente scollegata dal resto della Palestina. Dal 2006 è, di fatto, sotto il controllo di Hamas, un’organizzazione islamica più radicale che alcuni paesi definiscono come terrorista. Hamas ha rotto i rapporti con l’Autorità nazionale palestinese e questo ha fatto sì che le due parti dei territori palestinesi abbiano due autorità distinte e in fortissimo contrasto fra loro.
Dalla striscia, fino a qualche anno fa, partivano i famigerati razzi Qassam, degli ordigni artigianali fabbricati con un tubo di acciaio e un gas esplosivo, che, per anni, hanno fatto vivere nel terrore le aree limitrofe.
E poi ci sono i buonisti
Poi però ci sono anche tante persone che, nel loro piccolo, per quello che possono, lavorano per la pace. Sono quelli che qualcuno nell’Italia del 2017, chiamerebbe buonisti. Sono dentro le associazioni palestinesi che cercano il dialogo. Sono in quella parte, sempre più esigua, di opinione pubblica israeliana che riconosce le sistematiche violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte del loro governo: ne fanno parte Amos Oz, David Grossman, i militari israeliani di Breaking the silence, alcuni esponenti della sinistra della Knesset. Sono alcuni dei rappresentanti della Santa Sede che, come al solito, in fatto di arte della politica e della diplomazia danno due giri a tutti gli altri. Sono i Salesiani, i Francescani e altri ordini che tengono aperte le loro scuole a bambini di tutte le religioni, senza imporre il loro vangelo, ma cercando di farne vivere lo spirito proprio laddove è stato predicato. Sono i funzionari delle Nazioni Unite che, nonostante i balbettii della loro organizzazione, si fanno ogni giorno un culo quadrato per cercare di limitare i conflitti e portare un po’ di sollievo a chi sta peggio. Sono tanti giovani, nati sia di qua sia di là dal muro che non ne possono più di tutta questa assurda situazione e che, semplicemente, non vedono perché non si potrebbe smettere di farsi la guerra.
Il problema è che i buonisti stanno antipatici alla maggioranza delle persone che infatti votano e appoggiano sempre di più le forze che basano il loro consenso sulla paura e l’ostilità nei confronti del rispettivo nemico: i partiti di destra in Israele e Hamas in Palestina.
Quindi, in sintesi, detto che la soluzione dei due stati è diventata nei fatti irrealizzabile, una soluzione pacifica ulteriore dovrebbe uscire dal confronto fra la destra religiosa e nazionalista che governa e governerà Israele e un’ala palestinese sempre più radicalizzata e vicina ad Hamas. Due entità che non riusciranno mai a dialogare come invece facevano Rabin e Arafat e che, con mille difficoltà, ipotizzarono una soluzione tutto sommato più semplice di quella di creare un unico stato multiculturale e tollerante. Se ci si aggiunge, poi, che, ogni giorno, in Israele e Palestina, si coltiva la violenza per le strade non è difficile ipotizzare cosa attenderà questa terra per i prossimi anni.
Quindi non è questione di essere pro Israele o pro Palestina, ma di essere pro o contro la giustizia.
E poi, e poi…
In queste due settimane ho provato molti sentimenti diversi: rabbia, indignazione, solidarietà, compassione. Quello che più mi ha dato fastidio è stato, però, la vergogna. Mi sono vergognato perché tutte le persone con le quali ho parlato, dagli ebrei sionisti ai palestinesi più intransigenti, mi hanno spesso citato (parlandone, a seconda dei casi, benissimo o malissimo) gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia, l’Iran, i paesi del Golfo e l’Onu. Mai, mai, mai, qualcuno ha tirato in ballo l’Europa.
L’Europa da queste parti è vista come un luogo magnifico, dove spesso ci sono le origini dei propri antenati, che sarebbe bello poter visitare e da dove arrivano i turisti più simpatici. Ma non come un interlocutore politico o diplomatico che potrebbe fare qualcosa in un senso o in un altro.
Eppure, a pensarci bene, chi meglio dell’Europa, se l’Europa fosse unita, forte e credibile, potrebbe fare veramente qualcosa per questa martoriata terra? Chi meglio dell’Europa incarna i valori di pace, di democrazia, chi avrebbe più coscienza storica, più visione prospettica, più capacità economica, più vicinanza geografica e culturale per poter dare un contributo alla pacificazione di questa terra?
Due stati indipendenti, autonomi e confinanti, probabilmente, non nasceranno mai. La violenza, inevitabilmente e periodicamente, tornerà a scoppiare. Soffriranno altri innocenti, moriranno altri bambini. E’ solo questione di tempo.
E forse la cosa più concreta che noi italiani, noi europei, possiamo fare per la pace in Medio oriente, invece che battibeccare se ci stiano più simpatici gli israeliani o i palestinesi, è impegnarci per costruire un’Europa forte, fiera, libera e aperta. L’esatto opposto, per capirsi, di quell’istituzione litigiosa, meschina, sospettosa ed egoista che abbiamo visto e alimentato negli ultimi quindici anni.
Spesso accusiamo l’America di voler esportare la libertà e la democrazia con le armi e coi soldi. L’Europa le potrebbe esportare con la cultura e con la politica. L’Europa avrebbe tutte le capacità per migliorare se stessa e il mondo. Se — dannazione — solo lo volesse.
(Se avete voglia di discuterne sapete dove trovarmi)
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L’ha ribloggato su Leonardo Nesti.
Condivido pienamente, anch’io ho riportato le stesse perplessità e incertezze, ma con molta più amarezza e con la ferma convinzione che non cambierà niente per decine di anni.
Da un punto di vista laico, le religioni sono una enorme complicazione e quanto avviene al Santo Sepolcro è l’indice di come convivere sia impossibile nel momento in cui ognuno si sente superiore e prediletto da Dio.
A parte la cerimonia di apertura della porta che è demandata a due famiglie arabe musulmane, perchè le tre comunità cristiane che convivono all’interno, non sono riuscite per secoli, a mettersi d’accordo su una banale procedura di apertura dell’edificio, ma quello che ricordo benissimo sono gli orari delle messe che si susseguono sull’altare principale con orari precisi, che quando non sono rispettati al minuto, possono scatenare vere e proprie risse fra Francescani, Greci e Armeni (tutti cristiani). Che possiamo sperare?
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