E ora chi paga?
Le circostanze sono:
1) che nel 1993 un referendum ha sancito l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti dopo le malversazioni di Tangentopoli;
2) che il finanziamento è stato reintrodotto sotto forma di rimborso elettorale;
3) che con questi soldi (troppi) si è fatto di tutto e non solo finanziare la politica.
4) che il sentimento collettivo in Italia, basato più sull’incazzatura che sul ragionamento è profondamente contrario a finanziare la politica coi soldi di tutti.
Ma le circostanze sono anche che:
1) fare politica costa;
2) i soldi vanno trovati dove sono, quindi, principalmente, fra le grandi aziende;
3) che i partiti in Italia, salvo poche, forse una sola, eccezioni non sono trasparenti, non sono contendibili, sono anzi spesso padronali;
4) che abolendo il finanziamento pubblico ai partiti il finanziamento diverrà inevitabilmente privato. E che quindi i partiti consegneranno una parte delle proprie azioni e delegheranno una parte della propria iniziativa programmatica a chi li finanzia.
Poi, il finanziamento pubblico ai partiti si può anche abolire.
Ma senza:
1) una legge che imponga limiti e paletti ben precisi;
2) una che vincoli i partiti al rispetto di regole democratiche;
3) una che regolamenti l’attività di lobby;
4) la pretesa di una trasparenza totale.
Il rischio è che:
1) La politica dei partiti finisca in mano a non si sa chi;
2) I programmi sui vari temi vengano decisi dalle aziende che di quei vari temi si occupano (se dico slot machine, magari mi spiego meglio);
3) Il finanziamento illecito prosperi;
4) Il found raising nei partiti finisca per diventare più importante della proposta politica.
E quindi, se davvero vogliamo abolire il finanziamento ai partiti è necessario sapere
1) Chi paga chi;
2) Per cosa paga;
3) Per quali motivi lo fa;
4) In che maniera chi paga riesce a condizionare chi prende i soldi.