15
Mag
2015
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Ma come fa a piacerti il calcio?

Forse anche altri si saranno sentiti spesso ripetere, durante la loro vita, da una fidanzata, una moglie, una mamma o un amico laico, una domanda simile a questa: “Ma perché ti piacciono queste cose? Ma davvero una persona di vasti studi, buone letture e variegati interessi culturali può, non dico interessarsi, ma addirittura perdere la ragionevolezza, la misura critica a volte anche il decoro per undici minorati mentali milionari che rincorrono un pallone, manovrati da personaggi spesso abietti, a loro volta foraggiati da un ordine malvagio che obnubila la mente del popolo gretto, distogliendolo dalle vere nefandezze del mondo? Ma come fa a piacerti il calcio?”.

Per provare a rispondere bisogna risalire a una profumata notte di primavera inoltrata, esattamente un quarto di secolo fa, quando un bambino di dieci anni andò a letto piangendo. Nessuno lo aveva picchiato, nessuno lo aveva maltrattato, viveva felice circondato e protetto da una famiglia amorevole. Ma andò a letto piangendo per una cosa che stava succedendo lontano da lui e per un motivo che, apparentemente, non c’entrava niente con la sua vita di bambino.

Il 16 maggio 1990, allo stadio Partenio di Avellino, si giocava la finale di ritorno della Coppa Uefa. La Fiorentina veniva da una stagione tribolata. Per rendersi conto di quanto fu tribolata basti pensare che avevano pensato fosse una buona idea lasciar fare l’allenatore ad un tipo che, qualche anno dopo, avrebbe interpretato il ruolo della macchietta dell’allenatore rincoglionito in uno spettacolo televisivo. C’erano due terzini che oggi non giocherebbero neanche in promozione, un cecoslovacco lentissimo e un portiere scarso che oggi è al soldo dell’impero del male.

Poi, però, c’era lui.

C’era un ragazzino riccio che non giocava, solamente, col pallone. E non era tanto per il fatto che segnava e faceva segnare gli altri, era perché toccava la palla come probabilmente non l’ha fatto e non lo farà mai nessun altro nel mondo. Era perché quando faceva qualcosa con il pallone fra i piedi lo faceva con quella naturalezza esatta e assoluta che possiede solo la grande arte. Era perché se faceva una serpentina o tirava una punizione non riuscivi a capire costa stava succedendo. Potevi solo guardare rapito e pensare, ecco, questo è Roberto Baggio.

E per una questione di fortuna, caso, destino, lungimiranza degli osservatori o non so cosa Roberto Baggio giocava nella squadra del cuore di quel bambino. E voi non vi potete nemmeno immaginare cosa significhi avere dieci anni e Roberto Baggio che gioca nella tua squadra.

In quella profumata serata di maggio Roberto Baggio giocava con la squadra di quel bambino, ma, lo sapeva, sarebbe stato per un’ultima stramaledettissima volta. Dall’anno prossimo non solo lui sarebbe andato alle medie, ma Roberto Baggio avrebbe giocato per un’altra squadra. No, non un’altra squadra. L’altra squadra.

In quella profumata sera di maggio, la Fiorentina doveva recuperare il 3-1 dell’andata a Torino, in una partita che loro avevano, come sempre, rubacchiato. Niente di male. Quella sera ci avrebbero pensato loro: quei terzinacci rustici, quel cecoslovacco lentissimo, ma anche quel cagnaccio brasiliano che diventerà un allenatore, quello sfortunato ragazzo dal cuore grande che giocava centravanti e, soprattutto, lui, come dovuto regalo d’addio. Avrebbero recuperato e ribaltato il risultato e avrebbero vinto la coppa. Ne era sicuro, quel bambino. Anche se anziché a Firenze li facevano giocare in un campo lontanissimo, in una città dove tifano tutti per l’altra squadra.

E invece no, non successe. Quella partita finì 0-0, la coppa la vinsero gli altri e Roberto Baggio, di lì a qualche mese, sarebbe stato pure un loro compagno di squadra.

Quel bambino andò a letto piangendo avvolto da un orgoglioso dolore, totalizzante eppure collettivo, ammantato dal senso di abbandono. Una sensazione che toglieva il fiato: molte altre persone, in quello stesso preciso istante, stavano provando i suoi stessi sentimenti. Un dolore inconsolabile e disperato, appena lenito solo dalla fede che derivava da una solenne promessa fatta con se stesso che, un giorno, qualcos’altro avrebbe ripagato se non con una simile intensa gioia, almeno con una costante e agrodolce consolazione, quel dolore non raccontabile.

Io, un sentimento di disperazione così assoluto, per fortuna, non l’ho provato mai più. Nemmeno quando è arrivata la serie B, il fallimento, la serie C2, un miliardo di delusioni calcistiche e sempre poche gioie. Mentre intorno a quel gioco adorato si scatenava la violenza, la guerre fra bande, i morti per strada, gli interessi più squallidi e inconfessabili. E intanto quel gioco lo truccavano, lo svendevano, lo falsificavano, lo ricompravano e lo rivendevano e facevano di tutto per distruggerlo.

Ma come fa a piacerti il calcio?

Chi fa una promessa ad un bambino che va a letto piangendo poi non è che possa far finta di nulla per il resto della sua vita.

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