21
Nov
2013
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Vittorio Pozzo, il ct senza etichette che il calcio ha dimenticato

Fascista, antifascista, monarchico, nazionalista, militarista? Difficile definire con un aggettivo secco la complessa personalita’ del protagonista assoluto del ciclo piu’ vincente della nazionale italiana, gli anni Trenta dai due mondiali e dall’oro olimpico che sotto i vessilli dell’Italia fascista portano la firma indelebile di Vittorio Pozzo.

   La retorica fascista, e poi quella antifascista, ha cercato di mettere sul commissario tecnico della nazionale delle etichette semplificative: Pozzo uomo dei gerarchi, Pozzo repubblichino, Pozzo antifascista a servizio degli alleati. Benché il lato dei suoi rapporti con il potere fascista sia uno dei punti più oscuri della biografia di questo grande allenatore, la personalità del tecnico due volte campione del mondo, forse un po’ dimenticato proprio per la difficoltà di iscriverlo in una precisa categoria, è da ricercare nel suo più grande paradosso: allenatore modernissimo per la sua preparazione e le sue intuizioni tattiche, uomo all’antica, quasi risorgimentale nel suo nazionalismo e nel suo attaccamento a valori di cui il fascismo indubbiamente si è servito per andare al potere e per rimanerci per vent’anni.

   Intendiamoci: non è che nell’Italia fascista, che aveva capito benissimo la funzione del calcio come aggregatore di masse e strumento di glorificazione del regime, si potesse fare il ct della nazionale manifestando apertamente simpatie antifasciste. Pozzo aderì, forse suo malgrado ma sicuramente senza opporsi né farsi troppe domande, a quelle simbologie di cui lo sport fascista era intriso: il saluto romano prima della partita, ‘Giovinezza’ cantato insieme agli inni nazionali, perfino la storica partita dell’Italia in completo nero, nei quarti di finale dei mondiali 1938 contro la Francia a Parigi, diventata quasi il simbolo del calcio fascista.

   Tra le qualità di Pozzo, oltre ad una grande preparazione tattica maturata in gioventù in giro per l’Europa, c’erano anche diplomazia e astuzia, ingredienti fondamentali del suo successo. Che gli sono servite anche per tenere le sue squadre sempre in perfetto equilibrio sul sottilissimo crinale fra sport e politica.

   Se pure Pozzo, come affermò nella sua biografia uscita negli anni Sessanta, non fu mai iscritto al partito fascista, fu raramente messo sotto pressione dal regime e le sue tecniche motivazionali nazionaliste e militariste sono una spia di quanto le idee del regime avessero permeato il calcio per poter giungere alle masse. E la stampa dell’epoca contribuì a crearne una mitologia, tanto che, a guerra finita, Pozzo fu di fatto allontanato dalla nazionale in quanto ritenuto troppo compromesso con il fascismo.

   Dirigente della Pirelli, tenente degli alpini nella prima guerra mondiale, profondo conoscitore della tattica e delle dinamiche manageriali del calcio, Pozzo divenne per la prima volta commissario unico della nazionale nel 1912: e lo fu a più riprese per tutti gli anni dieci e venti, da solo o in compagnia.

   Il suo periodo d’oro cominciò pero’ nel 1929 quando il capo del calcio fascista, Leandro Arpinati, lo chiamo nuovamente a dirigere la nazionale. Nel giro di un decennio Pozzo vinse tutto: due coppe Internazionali (l’antenato del campionato europeo) e soprattutto due campionati del mondo: il primo, giocato in casa, davanti ai gerarchi estasiati, nel 1934. Quattro anni dopo colse il bis: impresa mai riuscita a nessun allenatore e solamente ad un’altra squadra, il Brasile di Pelé nel 1958 e 1962. In mezzo il sigillo dell’unica medaglia d’oro olimpica del calcio italiano, nella Germania nazista del 1936.

   Applicatore di schemi senza esserne schiavo per non sacrificare troppo l’estro dei suoi giocatori più dotati (fra cui Giuseppe Meazza), Pozzo introdusse anche alcuni aspetti che i ct e gli allenatori in generale seguono ancora oggi, come i ritiri prima di una competizione. Pozzo pretendeva che gli alloggi fossero spartani, come le caserme per gli alpini. E si racconta che per prepare le partite parlasse ai suoi giocatori della resistenza del Piave.

   L’Italia fascista si limitava a tollerarlo perche’, pur non avendo aderito con entusiasmo al regime fascista, era comunque un grande vincente. L’Italia postfascista non lo ha celebrato come avrebbe meritato (vi viene in mente uno stadio importante a lui intitolato?) perché, pur essendo un grande vincente, era compromesso con il regime fascista.

   Pozzo, come ha ricordato Giorgio Bocca era un fascista di regime, ovvero ”uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti”. E in un paese dove siamo abituati a dare etichette a tutti per non doverci sforzare di capire le cose, due mondiali e una medaglia d’oro olimpica sono finiti un po’ fra ciò che è più comodo non ricordare troppo.

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