La Asi Superga, la piccola nazionale dell’integrazione
Provate a prendere dei bambini, tutti di razze, colori, nazionalità e lingue diverse e date loro un pallone. Fin dal primo rimbalzo, dal primo tiro, dal primo passaggio, parleranno una sola lingua, avranno una razza sola, non ci saranno più differenze fra loro se non quelle dettate dal campo, fra chi ha i piedi buoni e chi non ce li ha. E siccome a giocare a pallone si ridiventa bambini, che il calcio sia uno straordinario fenomeno di integrazione non lo scopriamo noi.
Purtroppo a far notizia sono gli altri e, giocoforza, si parla sempre di loro: di quelli scemotti che fanno degli urlacci quando vedono in campo un giocatore nero, o quelli che, quando sono in campo, si dimenticano di essere pagati milioni e di essere un esempio per milioni di ragazzini, si offendono e si sputano.
Ma il calcio, è sempre bene ricordarselo, non e’ mica solo quello che si vede in televisione. Sparsi per il mondo ci sono campi polverosi, ci sono le strade, ci sono palloni fatti di stracci, a volte anche dei barattoli. C’è quello spirito, quella tensione, quello stupore che, nonostante tutto, qualunque cosa succeda, ci fa amare alla follia questo splendido gioco.
E così, sui campi di provincia, sorgono le squadre composte dagli immigrati: ci sono squadre marocchine, albanesi, slave, sudamericane, che nei campionati amatoriali provano a tenere alta la loro bandiera.
Se c’è qualcuno che mal li tollera è bene che si ricordi che fino a qualche decennio fa al loro posto c’eravamo noi. Qualche annetto fa, il mio giornale di allora mi commissionò una serie di pezzi sulla storia dell’emigrazione italiana. Incontrai un signore, Mario Maffucci, che mi raccontò una storia molto bella, che mi è sempre rimasta dentro.
Un po’ di contesto: subito dopo la seconda guerra mondiale, un po’ in tutta Italia il lavoro manca. In molte fabbriche vengono licenziati decine di migliaia di lavoratori. Molti dei quali solo perché in tasca hanno un giornale che non piace ai padroni o perché sono stati sentiti sussurrare la parola ‘sciopero’. Sulla montagna pistoiese la questione è ancora più pesante: la Smi di Campo Tizzoro costruiva infatti munizioni ed a guerra finita il suo fabbisogno di manodopera cala drasticamente.
Qualcuno dei licenziati stringe i denti, si mette in proprio e contribuisce a creare la spina dorsale di quella famosa terza Italia, piccole e piccolissime aziende, dinamiche e coraggiose, sulle quali si fonderà, qualche anno dopo, il boom economico. Altri, invece, prendono la via dell’emigrazione. In quegli anni la meta preferita è la Svizzera, un po’ perché vicina, un po’ perché le fabbriche avevano bisogno di manodopera, possibilmente con un po’ d’esperienza come quella italiana. La Smi sigla un accordo con la Von Roll di Gerlafingen (cantone di Soletta) e gli operai se ne vanno tutti (o quasi) lì.
Se si ascolta uno di quelli che ha vissuto quell’esperienza, ci si rende conto che le condizioni, l’atteggiamento dei locali, le umiliazioni, non erano poi così diverse a quelle che ci sono oggi in Italia. Ma uno dei veicoli d’integrazione dei giovani italiani in Svizzera fu, come adesso per molti africani e est europei, il gioco del calcio.
Nell’immediato dopoguerra vanto e orgoglio dell’Italia intera (anche quella di fede non granata) era il grande Torino di Valentino Mazzola, la cui leggenda si spezzò tragicamente con un drammatico incidente aereo avvenuto a Superga il 6 maggio 1949. La strage è ancora ben viva nell’immaginario collettivo nazionale, e all’epoca suscitò una vastissima ondata di commozione generale: anche, e forse ancora di più fra gli italiani all’estero.
Fu così che gli operai italiani di Gerlafingen decisero di metter insieme una squadra di calcio e darle proprio il nome del luogo dove Loik, Gabetto e gli altri campioni erano scomparsi. Soldi però ce n’erano pochini. Con la proverbiale determinazione dell’emigrante non si persero d’animo, presero carta e penna e scrissero una lettera a Torino. La società granata inviò loro scarpe, magliette e quello che serviva per cominciare: era nata l’Associazione sportiva italiana Superga di Gerlafingen.
La squadra si iscrisse al campionato dilettantistico svizzero: ci giocavano i giovani operai della Von Roll, immigrati dall’Italia. La Superga era la squadra degli italiani in Svizzera. Difendere i suoi colori riempiva il petto d’orgoglio come giocare in nazionale e seguire le sue gesta era come trovare un punto d’aggregazione, per sentirsi fratelli lontani da casa.
La Superga fece la parte del leone in quei tornei, conquistando successi dopo successi. Ma quello che più contava era rappresentare un indiscutibile polo di identità per gli italiani a Gerlafingen.
La Superga esiste ancora. Fra le sue file militano ormai anche giocatori svizzeri, segno di un’integrazione ormai avvenuta, anche se scorrendo le pagine del suo sito internet, interamente in tedesco, si trovano ancora molti nomi dall’inequivocabile radice italica: giovani nati e cresciuti in Svizzera, poliglotti e cosmopoliti, ma che credono che le umiliazioni e i sacrifici dei loro nonni sia meglio ricordarli, per sempre e a tutti. Anche giocando a pallone.
Sarebbe bello che se ne ricordassero anche certi italiani, negli stadi e fuori.