Iran, dove il calcio fa paura al potere come la rivoluzione
In Iran il calcio fa paura al potere. Forse più della rivoluzione, forse più della politica, forse più delle manifestazioni popolari. Perché è un elemento che riesce ad unificare il popolo, a dargli un anelito di libertà e una ribalta mediatica mondiale.
L’ultimo caso è avvenuto il 17 giugno del 2009: quando a Seul la nazionale iraniana si giocava contro la Corea del Sud un biglietto per i mondiali in Sudafrica. L’1-1 finale ha qualificato la Corea e mortificato le speranze iraniane, ma quella partita è rimasta nell’immaginario collettivo non solo nazionale e quelle immagini hanno fatto il giro del mondo per un altro motivo.
Pochi giorni prima, in Iran, si erano svolte le elezioni presidenziali. A contendere la leadership al presidente uscente Ahmadinejad c’era Mir-Hosein Mussavi, primo ministro negli anni ottanta, che si candida con una piattaforma più liberale e democratica. Il 12 giugno il presidente uscente annuncia la sua rielezione, ma Mussavi e i suoi sostenitori contestano l’esito del voto per i brogli. Mussavi invita chi l’ha votato a festeggiare la vittoria. Internet permette alle notizie di diffondersi velocemente ed agli attivisti di organizzarsi dribblando la censura. ‘Where is my vote?‘ diventa in pochi giorni uno slogan diffuso e ripetuto in ogni parte del mondo.
Il verde e’ il colore di quella campagna e in quel giorno, a Seul, sicuri di essere ripresi della telecamere, otto calciatori della squadra iraniana scendono in campo con polsini e fasce verdi. La protesta silenziosa dei calciatori iraniani ha subito una vasta risonanza in tutto il mondo, ma ce l’ha soprattutto a Teheran, dove le fasce verdi sono comparsi sugli schermi davanti ai quali milioni di connazionali seguivano con trepidazione l’esito dell’incontro.
A guidare la protesta il capitano della nazionale, Mohammed Ali Karimi, che si presenta in campo a Seul con due polsini verdi, imitato da Massud Shohkjaei, il giocatore che ha segnato il gol dell’inutile pareggio iraniano. Fra il primo e il secondo tempo interviene la Federcalcio iraniana e nessuno, fra i giocatori, si ripresenta in campo con i simboli verdi. Ma il sasso nell’etere ormai è lanciato e le immagini di quella partita, modesta dal punto di vista tecnico, importantissima da quello simbolico, si sono ormai già diffuse in tutto il mondo come ennesimo grido di dolore del popolo iraniano e della sua richiesta di democrazia e di liberta’.
Il calcio, in Iran, si è diffuso soprattutto negli anni Trenta, grazie allo Shah Reza Khan. Mentre nei villaggi chi indossava un paio di pantaloncini rischiava la lapidazione da parte dei mullah, lo Shah creò campi da calcio su terreni confiscati alle moschee. Reza Khan non era solo un grande appassionato di calcio, ma dette vita ad una campagna di modernizzazione del paese, potenziando le infrastrutture, mettendo al bando le leggi islamiche e modernizzando i costumi in chiave occidentale.
Ed e’ cosi’ che, per la restaurazione islamica, a cominciare dagli ayatollah che presero il potere nel 1979, il calcio è un po’ come il fumo negli occhi e non solo perché si tratta di un gioco che si pratica con troppa pelle scoperta, ma perche’ è il germe più pericoloso di quella occidentalita’ che hanno cercato di scardinare con tutte le loro forze. Se sono riusciti, in qualche modo, a mettere al bando cinema e musica pop, e’ stato anche per loro impossibile eliminare dal cuore degli iraniani la passione per il calcio.
Che spesso, soprattutto in occasione dei successi della nazionale, si è accompagnata con dimostrazioni e proteste politiche. Il caso più clamoroso è stato forse la qualificazione ai mondiali di Francia 1998, che l’Iran guadagnò con uno storico pareggio in trasferta con l’Australia. Per le strade di Teheran cominciarono i festeggiamenti: in mezzo a centinaia di migliaia di tifosi anche molte donne che rivendicavano il diritto di gioire con il resto del paese.
Quando, tre giorni dopo quella partita, gli eroi del pallone ritornano nella capitale, accolti festosamente nello stadio principale dai tifosi, ai cancelli si accalcano cinquemila donne che gridano: ”Siamo anche noi parte di questa nazione, e abbiamo il diritto di festeggiare! Non siamo formiche!”. La polizia ne fa passare qualcuna, poi non riesce a contenere l’ondata e, per la prima volta, migliaia di donne troveranno spazio sugli spalti dello stadio accanto agli uomini.
Ai mondiali francesi, ad ogni partita dell’Iran gli oppositori in esilio organizzarono manifestazioni ed esposero striscioni politici. A poco servì la repressione dei servizi segreti che provarono ad infiltrarsi fra i tifosi per lanciare cori contro Israele e contro gli Usa e che, in patria (quando venne trasmessa per la prima volta una partita di calcio dalla rivoluzione del 1979) censurò le immagini delle contestazioni che furono viste in tutto il mondo, proponendo scene di tifosi vestiti pesantemente, che certo erano poco credibili nel caldo giugno francese.
Con ogni partita di calcio che passa sulle televisioni iraniane, entra nel paese un pezzetto di Occidente, un pezzetto di libertà. I festeggiamenti per le vittorie sportive si trasformano spesso in atti dimostrativi contro il regime di Ahmadinejad difficili da interpretare e da stroncare. E così, in faccia a una delle repressioni più feroci del mondo, speranza e libertà sono affidate anche al pallone.
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